- Argomento: Arte, Storia
I greci chiamarono “Porthmos” lo stretto e “Reghion”, Reggio, cioè frattura, la città che si affaccia su quel passaggio...
Messina, anticamente detta Zancle, è la dirimpettaia. Fanno eccezione alla potenza malefica dei giganti, Mata e Grifone (marito e moglie), fondatori della città che, a tutt’oggi (malgrado in passato il loro culto fosse stato duramente osteggiato dagli inquisitori), sono puntualmente festeggiati il giorno di Ferragosto.
Un luminoso evento le dà una particolare risonanza artistica. Difatti, nel Quattrocento acquista rilievo la figura di Antonio De Antonio, il quale firmava i suoi quadri su un cartiglio dipinto e appuntato in basso, a vista d’occhio, “Antonellus Messaeneus me pinxit” (Messina, 1430 - Messina, febbraio 1479). Per questo lo dicono nato a Messina «il figlio più nobile della Sicilia» che, al tempo di Alfonso I si formò a Napoli alla bottega del Colantonio, in cui venivano accolti artisti di varie provenienze, soprattutto dalle Fiandre.
Considerato uno dei più grandi pittori rinascimentali, esponente della pittura fiamminga in Italia,
così lo presenta Cesare Bardi: «figlio di una civiltà multiforme, spagnola, fiamminga, napoletana, ma spesso assurto alla intangibile realtà della forma più pura e più dura»[1].
Sciascia gli dedica l'articolo L'ordine delle somiglianze nell'opera Cruciverba (Einaudi, Torino, 1973), utilizzando un brano ripreso dallo scrittore di Castelbuono Antonio Castelli: «Nella comunità alla quale apparteniamo, nel paese dove nasciamo, risiede la nostra nozione del colore; e la nostra misura d’uomo è regolata su un ordine bioetnico delle somiglianze. Sono l’assoluto fisiognomico e l’assoluto cromatico, calati nel crogiuolo della terra natìa, a modulare il nostro consistere».
Viaggiò molto ed eseguì numerose opere. Nella Crocefissione di Sibiu si nota sullo sfondo Messina con i Peloritani e le Eolie. La si ritrova in altre opere: nella “Crocefissione” di Anversa e in quella di Londra; nella “Pietà” di Venezia che risulta essere il punto d’arrivo della sua ricerca sul rapporto luce-ombra. Anche nel “San Gerolamo” di Londra.
Vale la pena di ricordare il Trittico di San Gregorio: «e chi non vorrebbe afferrare quella mano per baciarla, quella mano che la Madonna sporge, con qualche incertezza ancora nello scorcio, ma limpida, come vista attraverso un’acqua chiara: e visti attraverso l’acqua sono tutti i colori, quel rosa di zucchero, quegli azzurri ritagliati dal cielo, e i verdi cocomero e il giallo del tramonto»[2].
Dipingeva particolari paesaggistici Antonello e i suoi volti di figure umane appaiono enigmatici, quasi lontani e contemplativi.
Un accenno meritano le due opere, dalla datazione incerta, che tutto il mondo ci invidia.
L’Annunciata, che si trova a Palermo nel Palazzo Abatellis (creato verso la fine del Quattrocento dall’architetto siciliano Matteo Carnelivari), è sublime capolavoro di moderna raffinatezza. La dolcissima Madonna ha un volto di ragazzina con la carnagione olivastra e i lineamenti di rara, pura delicatezza. Neri e profondi, gli occhi mostrano uno sguardo lievemente rivolto verso il basso: comunica pudore, indugio, timidezza. Forse un po’ di disagio. Catturano l’osservazione le mani dalle dita affusolate e gestualmente seducenti. Con una lei si chiude il mantello e con l’altra sembra voler parlare con l’angelo, la cui presenza può essere immaginata.
La poetica dello sguardo si ritrova nel ritratto dell’Ignoto o “Ritratto virile”, tradizionalmente detto dell’Ignoto marinaio, che il barone Enrico Pirajno di Mandralisca comprò a Lipari nel 1859 nella bottega di uno speziale (orgoglio adesso del museo di Cefalù intitolato a questo erudito malacologo dell’Ottocento). Sciascia ne parla nella voce «Antificu», “Identico”, in Occhio di capra (Einaudi 1984).
Il suo sguardo di uomo ancora giovane è quasi di sfida; esprime, scrive Matteo Collura[3], un uomo compiaciuto di sé che sembra cercare complicità. Sguardo e sorriso si amalgamano in modo armonioso; sono il canale per il quale scorre un flusso energetico. Suscitano le labbra una sensazione di ironico scetticismo e comunicano la vitale astuzia di chi ha raggiunto l’appagante padronanza di se stesso. Una pittura, dunque, di “immedesimazione psicologica”: l’Uomo ignoto, contento della sua condizione, è una pregevole apologia di sé.
Bisogna anche dire che c’è a Messina uno speciale congegno di elevato valore artistico. L’orologio astronomico, voluto dall’arcivescovo Angelo Paini dopo il maremoto e il terremoto del 1908 e inaugurato il 13 agosto del 1933, è sorprendente visione: una sosta fascinosa. Ne parla Gesualdo Bufalino nell’opera La luce e il lutto in una paginetta appena che fa gustare la sua elegante scrittura.
Originale l’attacco: «Horloge, dieu sinistre, effrayant, impassible» (L'orologio, il dio sinistro, spaventoso e impassibile). Sono i versi che fanno da incipit al componimento di Budealaire L’orologio. «Ma quando mai – commenta lo scrittore di Comiso – l’orologio del Duomo di Messina è un marchingegno per caroselli e parate da palcoscenico, a Baudelaire non avrebbe messo paura. Tanto argutamente sembra voler addomesticare le scansioni truci del tempo attraverso una sfilata di amabili golem, i quali son sempre lì per lì per eludere l’ingranaggio delle coincidenze meccaniche e sbrigliarsi in tarantella».
Che maestro il nostro don Gesualdo, il suo linguaggio fa trionfare l’immaginazione.
Alcuni ragguagli, intanto. Fu l’orologio di Strasburgo del 1354 a fare da modello a quello di Messina completato in tre anni dall’azienda di Theodore Ungerer, proveniente proprio da detta città. La parte tecnica venne affidata all’ingegnere tedesco Frederic Klinghammer. Entrambi lo vollero più imponente di quello della loro Strasburgo, sincronizzando i movimenti con sofisticate allegorie storico-religiose. Alta 60 metri, la torre campanaria, realizzata da Francesco Valenti, ha diversi piani, ciascuno dei quali mette in mostra il proprio spettacolo allo scoccare del mezzogiorno.
Ecco la felice descrizione di Bufalino:
Allora sul piano più alto si potrà vedere un Leone rampante alzare a più riprese l’asta col vessillo cittadino e ruggire; più giù, un Gallo dorato sbattere l’ali e cantare; mentre Dina e Clarenza, le due eroine dell’assedio angioino, muovono con mani di bronzo i due capi della fune che regge il batacchio della campana, suonando l’una i quarti, l’altra i dodici colpi, ed è come se facessero tintinnare un grande salvadanaio di luce. Ma, scorrendo con lo sguardo, ecco il quadro animato della Lettera, quella, intendo, che la leggenda pretende scritta da un Angelo e trasmessa per mano dalla Madonna a un’ambasciata messinese. Più in basso ancora il presepe, i re Magi, la Pasqua, la Pentecoste, copioni tutti recitati da un cast di diecine di pupi, spinti a turno alle spalle da un buttafuori invisibile.
Lo spettacolo si conclude quando in alto le statue rappresentano le età dell’uomo - l’infanzia, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia – con la morte in retroguardia, armata di falce e pronta a colpire.
Nella stupefacente opera la meccanica si sposa con la fisica e l’astronomia. Immagini, pose, gesti, movimenti hanno una valenza simbolica: esprimono la storia della città, rappresentano il calendario liturgico sincronizzato con il procedere del tempo e degli astri. Il leone esprime la forza di Messina vittoriosa nella guerra del Vespro; il gallo, che batte le ali e canta il risveglio, annuncia la rinascita civica.
Della chiesa di Montalto viene riprodotta la costruzione risalente al 1294. Narra la leggenda che una colomba, volando, indicò il luogo dove edificarla. Per questo i congegni dell’orologio la fanno librare in aria. Così s’eleva un modellino della chiesa al suono dell’Ave Maria di Schubert. La Madonna della Lettera, patrona di Messina, elargisce la benedizione. Alcuni ambasciatori le si recano dinanzi, s’inchinano mentre uno di loro prende in custodia la lettera. La scena termina con il saluto della Vergine alla città.
È noto: in Sicilia le alchimie artistiche seguono dinamiche imprevedibili e costituiscono un fenomeno imprescindibile per comprendere gli snodi culturali della Penisola.
Federico Guastella
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